Per tutti coloro, o almeno buona parte, che decidono di lasciare volontariamente il posto di lavoro, non è prevista alcuna indennità di disoccupazione. Questo vale anche per la nuova figura della NASPI, atteso che la ratio della sua ragion d’essere è quella di aiutare coloro che non hanno un reddito, o che si sono visti mancare la propria forma di sostentamento ( stipendio) per motivi non riconducibili a sé.
Nel nostro ordinamento sono previste due forme di Dimissioni dal posto di lavoro: quelle volontarie e quelle per giusta causa. Se nel primo caso il dipendente non può avere nulla a che pretendere data la decisione autonoma di lasciare il lavoro, nel secondo caso, parliamo ci una differente tipologia dimissionaria che merita un discorso più articolato. In questo ultimo caso, è possibile infatti percepire la NASPI e vediamo insieme perché.
Dimissioni per giusta causa: quando è prevista la Naspi
Partiamo dal presupposto che si parla di dimissioni per giusta causa per indicare la decisione del dipendente di lasciare il proprio lavoro perché indotto da alcune dinamiche divenute non più sostenibili.
Dal suo canto la NASPI rappresenta un sussidio economico da elargire a coloro che hanno improvvisamente perso il lavoro involontariamente. Per cui sui generis il dimissionario non dovrebbe averne diritto. Tuttavia secondo la legge, nel predetto caso di dimissioni per giusta causa sussiste una eccezione alla ratio della norma. Chi decide di andare via dal proprio lavoro, se ha elementi in suo favore che possano dimostrare concretamente i motivi per cui ha deciso di lasciare il lavoro (giusta causa) può avanzare pretesa di indennità di disoccupazione. La giusta causa rappresenta un comportamento illegittimo, o quantomeno una situazione grave creatasi sul posto di lavoro, che ha reso insostenibile il proseguimento della collaborazione. Le situazioni di cui stiamo parlando possono anche (come vedremo più avanti) inserire a delle pressioni psicologiche che il soggetto ha subito.
A chiarire spesso la posizione poc’anzi espletata, anche la Corte di Cassazione, che con una pronuncia del 2002 ha considerato possibile l’accesso alla Naspi che chi si dimette per giusta causa. Questo in quanto non sussiste in questo caso volontarietà di voler cambiare lavoro, piuttosto il lavoratore considera questa la sola soluzione possibile per interrompere l’esasperazione sul posto di lavoro.
Tipici esempi di dimissioni per giusta causa
Da quanto abbiamo detto sinora emerge la possibilità di redigere un possibile novero di tutte quelle situazioni che possono rientrare nel concetto di giusta causa. Un elenco cioè di possibilità che rendono impossibile continuare a ricoprire quella mansione in quell’azienda. Ad esempio, un dipendente può decidere di esperire dimissioni per giusta causa qualora per due mesi consecutivi il datore di lavoro non paghi lo stipendio. Giusta causa può essere anche un’aggressione verbale, una molestia sessuale, o una regressione del proprio ruolo senza motivo.
Può altresì giustificare questo tipo di dimissioni un episodio di mobbing, variazioni significative delle condizioni di lavoro, o ancora un trasferimento da una sede all’altra senza ragioni tecniche, organizzative e produttive. Anche l’omesso versamento dei contributi previdenziali può essere considerato motivo di dimissioni per giusta causa.
Cosa accade in uno di questi casi? Il dipendente dimissionario va via dal posto di lavoro, e al contempo può avanzare alcune pretese, perché la legge glielo consente. In primis, può dare le dimissioni senza preavviso (cosa invece obbligatoria per le dimissioni volontarie). Al contempo, il dipendente ha diritto a godere dell’indennità sostitutiva del preavviso, quindi il datore di lavoro ha il dovere di pagargli una somma pari alla normale retribuzione che gli avrebbe corrisposto qualora ci fosse stato il preavviso. Infine, può avere diritto, come un ex dipendente ormai disoccupato, a presentare la domanda per l’indennità Naspi, assolutamente negata a chi volontariamente lascia il lavoro